Il libro è costruito grazie ai contenuti dei documenti dell’Archivio Storico Mediobanca “Vincenzo Maranghi”, costituito dopo 66 anni di attività nel 2012 e oggi fulcro del patrimonio culturale del settore bancario italiano. L’Archivio fa parte della Direzione Comunicazione di Gruppo ed è aperto alla consultazione da parte del pubblico dal 2019.

 

Il discorso del nostro Amministratore Delegato

"Vorrei anzitutto ringraziare il professor Giovanni Farese e tutti coloro che hanno collaborato con lui alla realizzazione del volume Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia, pubblicato dall’Archivio Storico di Mediobanca “Vincenzo Maranghi”. Si tratta di un contributo molto significativo per l’ampiezza delle fonti consultate e, soprattutto, per la capacità di rendere al meglio quel milieu culturale e professionale che rende possibile il percorso di Mediobanca sin dalla sua costituzione. Si può bene dire che è anzitutto una storia di persone dai tratti non comuni.
In questo mio breve contributo vorrei trasmettervi la lettura del libro del professor Farese attraverso le lenti di chi, come me, da tanti anni opera nel settore bancario e ha la fortuna di farlo in Mediobanca. Cercherò di rileggere quel periodo della Banca alla luce di come si è evoluta e si svolge oggi la professione. E per mettere in luce come molto di quell’approccio gestionale e di quelle intuizioni siano tuttora vincenti.
Per capire lo sviluppo di Mediobanca, ovvero di una banca che prima di tutte in Italia ha la vocazione di banca di affari con uno spiccato taglio internazionale, non possiamo prescindere dalla formazione di Enrico Cuccia nei suoi primi anni di percorso professionale. Giova qui ricordare la breve esperienza negli anni Trenta a Parigi per Sudameris, controllata dalla Banca Commerciale Italiana e da Paribas, e quella più lunga a Londra presso la Banca d’Italia. Qui Cuccia inizia a conoscere i mercati finanziari più evoluti e il peso e il ruolo delle banche d’affari, sia pure in una fase in cui, durante la grande crisi, il loro contributo allo sviluppo diviene necessariamente più limitato.

Un secondo periodo, di quattro anni, presso l’IRI di Alberto Beneduce (presidente) e Donato Menichella (direttore generale), è ancora più rilevante. Lo è perché l’IRI – costituito nel 1933 all’indomani della grande crisi del 1929 – ha assunto il controllo di buona parte delle banche italiane a seguito del fallimento del sistema di banca mista, e, per effetto di ciò, ha in portafoglio una buona parte delle aziende industriali. Ma lo è ancora di più per l’approccio gestionale che ne è caratteristico: serietà e competenza uniti alla totale indipendenza dalla mano pubblica a prescindere dall’appartenenza del capitale (pubblico o privato).
Nell’IRI dell’epoca – il cui presidente Beneduce è l’unico membro non banchiere centrale a sedere nel consiglio della BRI, la Banca dei Regolamenti Internazionali istituita nel 1930 a Basilea – è forte il convincimento che l’Italia debba guardare e aprirsi ai mercati esteri a partire dagli Stati Uniti, che sono visti come la nuova economia dominante.
All’IRI Cuccia conosce Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Banca commerciale, che lo assumerà in Comit nel 1938, con destinazione finale al settore estero dove resterà per otto anni. Qui rafforza la sua conoscenza delle banche e dei banchieri esteri, esaminando il loro modus operandi e stabilendo nuove relazioni professionali. Si creano dunque le basi di un banchiere con una prospettiva da subito internazionale che concepisce la professione allineata ai migliori interlocutori europei ed americani.
Da queste basi e con la forte spinta di Mattioli, prende forma nella prima metà degli anni Quaranta l’idea di Mediobanca. Partecipata da Comit, Credit e Banco di Roma (a loro volta controllate dall’IRI), la banca nasce il 10 aprile 1946, settantacinque anni fa. Colpisce la modernità e, per molti versi, l’attualità di quella concezione. Mattioli e Cuccia pensano a una realtà molto diversa da quelle esistenti allora in Italia. Come sappiamo, dopo il fallimento della banca mista, le banche di credito ordinario non potevano fare raccolta e impieghi a medio e lungo termine né assumere partecipazioni in imprese industriali. Vi era tuttavia un evidente bisogno di stimolare la ricostruzione postbellica, uscire dall’autarchia e favorire l’evoluzione del sistema industriale italiano agganciandolo ai mercati esteri. L’attività di banca d’affari intesa come advisory e capital markets non era certo diffusa in Italia, che non aveva la tradizione delle banche d’affari europee della seconda metà dell’Ottocento. Ci voleva quindi, nell’Italia distrutta dalla guerra, una banca con mestiere e licenza bancaria diversi.
Qui giocano un ruolo fondamentale la preparazione, la credibilità e la visione di Mattioli e di Cuccia. Si pensa fin da subito a una realtà che possa agire come una moderna corporate and investment bank, ovvero una banca specializzata nel segmento imprese che sappia capire profondamente le determinanti dei settori industriali e, quindi, che sia in grado di finanziarne la crescita con prestiti a medio e lungo termine; che sappia accompagnarli sui mercati per raccogliere capitali e fornire consulenza per favorire fusioni e acquisizioni. Accanto a ciò si prevede che Mediobanca possa assumere partecipazioni. È fin da subito chiaro che Mediobanca è un unicum sul mercato italiano e che i paragoni vanno fatti con alcune banche d’affari europee (soprattutto francesi e inglesi) e americane, che non per caso troveremo poi nel capitale di Mediobanca.
L’altro aspetto che merita di essere sottolineato è la costante ricerca di partnership internazionali. Mattioli e Cuccia sanno bene che l’Italia non può prescindere dai mercati internazionali per finanziare e sviluppare la propria economia. D’altra parte a quel tempo le banche, per di più con breve vita professionale, non potevano stabilirsi con vere e proprie sedi operative all’estero. Esistevano al più uffici di rappresentanza. Ecco quindi che, già all’atto della costituzione, Mediobanca ricerca accordi di collaborazione con realtà estere di prestigio: svizzere, francesi e americane. Lo fa per un duplice ordine di motivi. Il primo è strettamente professionale: è necessario in quei mercati avere banche partner per poter seguire i clienti italiani nel raccogliere i capitali e intercettare nuovi affari. Il secondo afferisce agli assetti del capitale di Mediobanca: è necessario avere soci privati esteri di prestigio per bilanciare l’ingerenza dell’IRI che già negli anni Cinquanta non ha più l’impronta gestionale della stagione di Beneduce. Come sappiamo, la ricerca dura quasi dieci anni, che non sono certo sprecati perché costituiscono per Cuccia l’opportunità per stringere relazioni e conoscere realtà operative di prim’ordine cui ispirarsi.
L’accordo arriverà nel 1955 e vedrà Lazard New York e Lehman entrare nel capitale di Mediobanca con una quota del cinque per cento ciascuna. Questo accordo merita di essere ricordato anche perché si prevede un right of first refusal nei rispettivi mercati e rappresenta il primo tentativo, dopo la guerra, da parte di una banca italiana di una collaborazione a livello internazionale. E perché prevede accordi di collaborazione con la Development and Resources Corporation (Desources) e con Sofina. Da qui deriva un’altra osservazione molto attuale: per mantenere la presa sulla migliore clientela, Mediobanca deve continuamente allargare le sue connessioni internazionali e, al contempo, ampliare il perimetro della sua attività anche attraverso rapporti con società come la Desources che diano un contributo di professionalità supplementare.
A questi soci esteri se ne aggiungeranno altri italiani (nel 1956 le compagnie assicurative, nonché Edison, IFI, Pirelli) e poi ancora, nel 1958, altri esteri (Berliner Handels Gesellschaft di Francoforte, Lazard Londra e la stessa Sofina). L’accordo di first refusal comprende Lazard Parigi. Si disegna così una mappa transatlantica ed europea a un anno dalla firma dei Trattati di Roma (1957) che istituiscono la Comunità Economica Europea.

Si aggiunga un dettaglio significativo. Mediobanca, anche su impulso del NYSE, è la prima banca italiana che viene quotata nel dopoguerra. Questo iter di crescita così rapido ricorda, come si usa dire, che “la qualità chiama la qualità”. Aver concepito Mediobanca come un consesso di azionisti e amministratori di prestigio facilita lo sviluppo e richiama altri possibili soci sempre di standing; e questo, a sua volta, sviluppa gli affari per la reputazione acquisita.
Cuccia, che è in rapporti operativi con Siegmund Warburg, uno dei maggiori banchieri d’affari del Novecento, condivide infatti con lui la convinzione secondo la quale sono cinque le caratteristiche di una banca d’affari di successo: standing morale, reputazione per l’efficienza e il lavoro intellettuale, connessioni, capitali, organizzazione di qualità.
Quest’ultima considerazione ne chiama un’altra altrettanto importante. I successi di una banca di investimento possono essere notevoli in certi periodi e poi affievolirsi in altri, fino al punto di sconfinare nella crisi e nella scomparsa. I casi di questo tipo sono molteplici. Pensiamo alla stessa Warburg che, dopo l’uscita di Siegmund, crebbe molto prima di trovarsi, in una fase critica del mercato, nella necessità di essere acquisita dalla svizzera SBC. Oppure alla Bear Stern o alla stessa Lehman, che furono assorbite poiché non erano più solvibili. Sicuramente in queste crisi hanno avuto un ruolo importante le aspettative di guadagno dei singoli bankers che hanno indotto ad assumere rischi eccessivi. Pensiamo anche ad altre banche che hanno seguito una aggressiva politica di erogazione di crediti, alle volte anche su spinta politica. Più difficile è far mente locale a banche di investimento che nel lungo termine hanno saputo svilupparsi in maniera oculata e sostenibile.

Ecco allora che vengono in mente alcuni passaggi del libro del professor Farese. Hanno a che fare con le caratteristiche professionali e il modo di concepire la banca di Cuccia così come si rinvengono in lettere che lo riguardano o nella sua corrispondenza.
Sovvengono le parole di David Lilienthal – che negli anni Trenta era stato uno degli esponenti di punta del New Deal di Roosevelt e si era avvicinato, negli anni Cinquanta, a Lazard – che ne parla come di un banchiere che “ha una curiosità e un appetito per le idee molto più ampia di chi nel trattare un affare ne chiede quali sono le garanzie sottostanti al prestito”.
O la convinzione condivisa con André Meyer, il dominus di Lazard New York legato a Cuccia da stima e amicizia, in base alla quale “you don’t learn anything in plants”: vale a dire la necessità per un banchiere di avere un bagaglio di competenze tecniche molto solido, di basarsi soprattutto sui bilanci societari ma all’interno di una cultura ben più vasta. Che collega l’interesse della banca a quello più generale del paese in cui opera. In cui il singolo profitto dell’istituzione finanziaria non deve mai andare a detrimento di un vantaggio collettivo. Un banchiere privato che però opera come un civil servant che, a sua volta, fa del rigore del suo approccio una raison d’être.
Alcuni esempi. Pensiamo a quando, alla fine degli anni Settanta, scrivendo proprio a Lilienthal – che alla metà degli anni Cinquanta aveva visitato il Mezzogiorno su invito di Mediobanca – Cuccia afferma che, a distanza di oltre venti anni da quel viaggio, i problemi del Mezzogiorno son ancora ben presenti a causa “della generale incapacità del paese di imporre l’auto-disciplina che ne è un prerequisito per risolverli”. Oppure a quando risponde alla richiesta del presidente della Sme (Giuseppe Cenzato) che Mediobanca sarebbe ben lieta di fare finanziamenti relativi a opere pubbliche nel Mezzogiorno d’Italia, purché si tratti di progetti seri che rispondano a effettive esigenze di interessi produttivi. È di tutta evidenza come queste considerazioni possono essere tranquillamente estese a tanti progetti strampalati che tuttora si affacciano non solo nel nostro Paese.
Ecco quindi che a distanza di tanti anni le caratteristiche del percorso di Mediobanca di quel periodo sono certamente valide tutt’oggi. Perché è pur vero che molto della professione bancaria è cambiato a seguito della globalizzazione dell’economia e dei mercati. E che, per esempio, una banca d’affari non si sviluppa più attraverso l’assunzione di partecipazioni di minoranza in competitor o in aziende industriali.
E tuttavia rimane ancora più vero che essa ha solide prospettive di sopravvivenza se la sua cultura aziendale è improntata agli stessi principi di competenza e di rigore nel valutare le operazioni, se continua ad alimentare la sua crescita con persone e con investimenti di assoluto standing e se è capace di coniugare in maniera equilibrata la comprensibile esigenza dei singoli di fare fortuna con il contributo concreto della banca all’economia".